La Canavesana d'Epoca: racconto semi-serio di un'esperienza unica
Di GIANCARLO COSTA ,
Di Dario Robaldo
Io non è che lo so bene il motivo per il quale m’è venuto da pensare a questa roba del ciclismo eroico. Voglio dire, se sei uno che normalmente sta spesso a cavallo di una bicicletta da corsa, allora ci sta che ti può venir la curiosità di fare pure “sta cosa”. Ma siccome non sono uno così, sono uno che per lo più pedala stanco con una comune bicicletta, uno mai salito prima su una bici da corsa, allora non me lo spiego mica com’è che mi è venuta questa pensata.
E comunque m’è venuta e quando una pensata come quella si insinua in me, beh, difficile tendere trappole ai miei pensieri e far finta di niente. Poi mi si potrebbe pure fare osservare ( come in realtà ha tentato inutilmente di fare la mia mamma ) che a quasi cinquant’anni uno dovrebbe riuscire a ponderare meglio le pensate improbabili. Ed invece la mia presunta maturità, in questi casi, non serve.
Alle 9.00 sto lì, in mezzo ad improbabili individui convenuti in piazza, con la mia del tutto sconosciuta bicicletta sconsideratamente acquistata allo scopo, in attesa della partenza e provo a valutare, osservando gli altri, il mio grado di inadeguatezza. Vedo individui giovani con fisici asciutti su gambe abbronzate e depilate ma per fortuna anche qualcuno molto più… datato e di esuberante pancetta dotato. Mi tranquillizzo: se ce la fanno questi ultimi, mi dico, allora devo farcela pure io. Più tardi scoprirò che, per il futuro, questa dell’età e della pancetta è una considerazione fuorviante, da cancellare.
Insomma si parte e nel gruppone l’allegria altrui è palpabile e fa da contraltare alle perplessità che invece continuano ad avere residenza presso di me. Poi il primo sterrato e la mia bicicletta sembra dirmi qualcosa che subito non afferro e che capisco poi quando salendo gli infiniti tornanti di Masino mi ritrovo una gamba con una evidente escoriazione: voleva dirmi che il fondo sterrato non le garba moltissimo, che preferirebbe l’asfalto, e che devo usare una delicatezza e un’attenzione che non avevo preventivato per condurla su quelle inconsuete strade senza trovarmi nuovamente disarcionato.
Recuperato il fiato e lasciato il castello, mi preparo alla discesa che per le asperità non regala le soddisfazioni che credevo insite nel percorrere, in direzione favorevole, un piano inclinato né mi permette di godere dell’ambiente attraversato. Poi qualche tratto davvero molto bello se non fosse per un’altimetria che per la mia preparazione considero esageratamente varia la quale mi induce a tenere alta la concentrazione per la salita che se non si palesa proprio in quel momento, arriverà presto. E’ in effetti un susseguirsi di saliscendi che progressivamente a me appaiono più un sali che un scendi e quindi comincio a patirli, sento la stanchezza crescere, avverto la pressante calura e la scarsa presenza di aria godibile e rigenerante.
In questo quadro di prossima resa giungo al secondo ristoro dove ingollo coca e qualche pizzetta prima di rendermi conto del personale errore di valutazione che sembrava promettere una ripartenza in discesa. Niente di tutto ciò: si riparte con uno strappo in salita che mi porta vicinissimo a restituire in forma informe pizzette e coca. E’ su quella salita che ho iniziato a pensare all’evidente sadismo insito negli organizzatori o al masochismo dei consapevoli partecipanti di queste “Eroiche”. Ma tant’è, mica nessuno mi ha costretto e ora che son qui, a calci e pugni o a spinta, devo arrivare.
In origine l’ipotesi più accreditata in me era di fare i 105 km perché i 55 sembravano essere una proposta per infanti della scuola materna ma ora che nelle gambe ne ho circa 40 comincio a meditare sul da farsi e tra un tratto pedalabile e l’altro che mi induce vicinissimo alla bestemmia cerco in me pensieri tesi a convincermi circa il fatto che non è poi una cosa disonorevole dare retta al fanciullo che c’è in me e che i 55 sono alla portata mentre i 105, inutile raccontarmi balle, sono irraggiungibili. E mentre medito questo imparo un altro aspetto di queste cicloturistiche: quando un omino abbigliato con un gilè fluorescente sta in mezzo alla strada che stai percorrendo faresti meglio ad investirlo perché se non lo fai quello, col sorriso sulle labbra che a te vien da pensare alla cordialità di questo angolo di Piemonte, ti indica di svoltare, a seconda dei casi, a destra o a sinistra dove però invariabilmente ti si paventa d’improvviso l’ennesima salita che almeno per i primi metri è davvero esagerata (e lì comprendi che il sorriso dell’omino non era per nulla cordiale, era sarcastico): roba che ti vien voglia di fermarti prima di entrare in debito d’ossigeno, scendere dalla bici e andare a picchiare duro quello con il gilè fluo.
Anche se non è colpa sua.
Un’altra cosa compresa è l’importanza di non fare più queste cose da solo. Gli ultimi sette, otto chilometri li ho percorsi con un più o meno coetaneo che aveva un ritmo simile al mio e con lui ho parlato, fatto considerazioni, valutazioni… e diversamente da prima che ogni sintomo proveniente dal mio organismo era evidenziato, temuto e sopravalutato, ora la strada scorreva (là dove poteva scorrere) al punto che l’insana idea di prolungare riprendeva corpo. Quindi, nella speranza che la sua intenzione fosse di fare il percorso lungo, informavo il mio nuovo compagno del proposito iniziale di fare i 105 km e che però avevo grosse perplessità viste le mie quasi esaurite energie. In risposta al mio ragionamento lui ha opposto pacatamente una considerazione legata unicamente al calore e all’afa opprimente che sconsigliava di proseguire, in una giornata così caratterizzata, verso Ivrea. Pur invidiando l’abilità di tale ragionamento atto a mascherare la sua condizione di “scoppiamento”, con quelle parole l’ipotesi di proseguire per Ivrea è stata definitivamente accantonata e la pedalata è proseguita con leggerezza fino al cartello di Albiano… ma, come nei peggiori film del terrore nei quali lo spettatore viene colto alla sprovvista dalla serenità delle ultime scene sconvolte da un ultimo e truculento omicidio, ecco la sorpresa finale: deviazione a sinistra, salita ormai inaspettata e per questo più difficile e dolorosa. Ma si è alla fine e allora si raccatta quel che è rimasto e si sale fino ad intravedere il presunto culmine sul quale, sadicamente, sta all’uopo appostato un omino fluorescente che con indifferenza invita a svoltare ancora a sinistra dove davanti a te si evidenzia un indecente strappo verticale su un fondo impossibile. Tempo di comunicare all’omino della sua insita bastardaggine, sentire la risposta di lui che, evidentemente pervaso da un senso di colpa, informa della brevità di quell’ultimo strappo, salito sui pedali ho sentito i miei muscoli dolere al limite dei crampi: risedutomi sul sellino e forzando con le ultime risorse su quello sterrato ignobile, raggiungo la sommità e discendo poi su del ghiaione, assolutamente instabile, gettato lì a secchiate quasi fosse un ultimo grazioso pensiero da parte dell’organizzazione.
Infine il traguardo. Firma e attestato. Recupero di una respirazione normale. Acqua. Pranzo con i pensieri che si finalmente si distendono. Vino.
Un sms inviato a figli e fidanzata: “ Fatto! …Sfatto…”.
Esperienza unica? Mentre torno a casa è questa la domanda che mi gira in testa.La risposta, lì per lì, vira ad essere “si” ma non in modo sicuro, definitivo… e adesso, a distanza di due giorni sono lì ad osservare il sito della “Mitica” cercando di valutare se il percorso lungo sia alla portata oppure no…
Fuoriondabike?! E’ per te sufficientemente se ti comunico un semplice ma sentito “grazie” a te e a tutti gli omini fluorescenti per la sudata domenica che mi avete fatto trascorrere?